L’osservatore che si affaccia per la prima volta da un belvedere della riserva naturale, viene colpito sicuramente dal particolare aspetto a mosaico dei terreni, una biodiversità agraria che si rispecchia in quella naturale e viceversa. La peculiarità di avere suoli utili all’agricoltura di poche decine di ettari a famiglia ha fatto sì che in questa, come in altre aree del territorio regionale, la mosaicizzazione dei terreni sia uno degli aspetti dominanti e peculiari. Ad ogni tessera corrisponde un colore del mosaico e ad ogni colore una tipologia colturale. Nel periodo estivo, possiamo osservare gradazioni che vanno dal giallo del grano al verde dell’erba medica, fino al rosso del sorgo, in quello autunnale domina il marrone dei terreni appena lavorati, colori legati da matrici e linee prodotte da erbe e arbusti spontanei a ricordo della flora locale, a protezione dei fossi collinari e a confine degli spazi.
L’agricoltura nei calanchi è il frutto di una continua lotta tra uomo e natura, tra erbe che colonizzano i terreni utili e uomo che strappa lembi di spontanee alla natura. Le aree di margine sono il luogo dove la battaglia è ancora più tangibile e cruenta, qui il contadino non può mai abbassare la guardia, è qui infatti che si gioca lo scontro più importante tra chi cerca di sottrarre suolo e chi, come Arundo plinii, Cornus sanguinea, Prunus spinosa e Lonicera caprifolium e tante erbacee di margine, cerca di riprendere il possesso di campi a cereali o a pascolo.
La Riserva pur estendendosi su una superficie di circa 400ha, ha il 50% del territorio occupato da calanchi e terre inadatte alle pratiche agricole a causa della giacitura e delle pessime proprietà chimico-fisiche del suolo o delle pendenze quasi proibitive dei fondi coltivati, che possono superare il 28%. In quest’area la scelta della coltura è ancora oggi influenzata da opportune valutazioni mirate alla migliore conduzione aziendale nella forma dell’autoproduzione. La quasi totalità delle aziende agricole operanti in Riserva, ha infatti anche allevamenti bovini di proprietà e indirizzano le loro coltivazioni verso l’autoproduzione di cereali e foraggi per il sostentamento aziendale al fine di evitare l’acquisto oneroso di foraggi e sfarinati. In molti casi l’impossibilità di mettere in atto un tipo di agricoltura estensiva ha definito, soprattutto negli ultimi anni, l’abbandono progressivo delle terre marginali, difficilmente gestibili con i mezzi agricoli moderni o perché nel tempo le nuove generazioni hanno scelto nuove strade, e la maggior parte delle terre destinate a colture erbacee nel corso degli anni si è spostata su terreni “più comodi” e comunque sempre più verso le aree di fondovalle. Le coltivazioni più rappresentative in oasi sono: Orzo (Hordeum vulgare), Mais (Zea mais), Sorgo (Sorghum vulgare), Avena (Avena sativa), Grano tenero (Triticum aestivum) e grano duro (Triticum durum). Spesso le graminacee sono messe in rotazione con leguminose quali: Erba medica (Medicago sativa), largamente usata grazie alla sua alta velocità di rigenerazione dopo lo sfalcio; fave, utilizzate sia in zootecnia che per l’alimentazione umana e Sulla (Hedysarum coronarium), impiegata sia a fini zootecnici che come specie mellifera. La rotazione colturale che si adotta è spesso di 2-3 anni, tuttavia in alcuni casi, in special modo per colture leguminose, gli agricoltori propendono per il prolungamento della coltivazione di un altro anno, anziché lasciare i campi a maggese. Le colture erbacee sono spesso promiscue a impianti arboricoli da frutto come uliveti, e in minor misura ciliegeti e noceti. Pochi gli uliveti e i vigneti tanto declamati da storici e poeti fin dall’epoca romana, che comunque pian piano con i nuovi orientamenti di mercato fanno di nuovo capolino sulle nostre colline che perlopiù sono dominate da pascoli e incolti, a retaggio di un passato in cui, la presenza della Doganella d’Abruzzo e le poste d’Atri, con i suoi restrittivi regolamenti, condizionava il nostro territorio a favore di pratiche utili al pascolo, in quella che veniva definita la “piccola transumanza”.
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